Quasi a cavaliere del Poggio che fa da spartiacque al Cecina e al Cornia, al Sasso, c’era un podere chiamato “Aia dei Diavoli”. La leggenda dice che la casetta esistesse fin dal medioevo e che il suo nome fosse legato ad un fatto misterioso accaduto proprio in quell’epoca.

Quando morirono i vecchi coniugi che avevano menato la loro misera esistenza lavorando il podere che allora si chiamava l’Aia, il suo proprietario e signore la concesse a dei fittavoli forestieri. Era una famiglia composta da cinque persone: padre, madre, due figli maschi ed una femmina tutti e tre, quest’ultimi, in età di accasarsi.

Ai buoni e curiosi contadini, che si erano recati a dar loro il benvenuto ed invitarli a veglia, risposero bruscamente che non sarebbero andati a veglia da nessuno e non avrebbero gradito alcuna visita. I vicinanti ritornarono mortificati alle loro faccende in preda ad uno strano malessere, quasi di paura. Nei giorni che seguirono nessun abitante dell’Aia scese a fare atto di ossequio ai Reggitori di Castel del Sasso né a quelli di Castel Nuovo; ignorarono anche la contessa Gisla de’ Pannocchiereschi, signora del castello della Leccia. Lavoravano come dannati dall’alba al tramonto per riattare la casa, il forno e la stalla. Nessuno li vide mai a messa nella cappella di Castel Volterrano o nella vetusta chiesa plebana di Commessano che estendeva la sua giurisdizione oltre il Cornia, il Pavone e Casiglion Bernardi.

Nelle lunghe serate invernali, quando sul Poggio sibilava la tramontana e la neve impazzita s’ammulinava per aria, i nuovi venuti si tappavano in casa in compagnia di alcuni forestieri che nessuno aveva mai veduto arrivare. Facevano festa! S’udivano risate, canzonacce oscene inframmezzate da orrende bestemmie. C’era chi assicurava che l’eco di queste orgie si sentisse fino a Lungaiano. Allora i contadini sprangavano i loro abituri presi da un incomprensibile terrore.

Tre o quattro anni dopo la venuta di quei contadini, ci fu una tremenda carestia tanto che il vecchio molino, quello che in seguito doveva chiamarsi Mulin di Fondo, chiuse i battenti perché nessuno aveva più grano da macinare e la gora era asciutta per la lunga siccità. Mentre le massi dei contadini più poveri s’accartocciavano striminzite sotto un implacabile solleone, quelle dei misteriosi abitanti  dell’Aia erano rigogliose pur avendo degli strani riflessi rossastri simili a bagliori di fuoco. Per la trebbiatura, come al solito-vennero chiamati ad aiutare, degli uomini di fuori e nessuno del  Sasso. Un giorno d’ agosto, mentre i correggiati battevano le spighe gonfie di grano, un viandante proveniente da Castel Nuovo, dopo aver osservato, non visto, la scena della trebbiatura, corse di filato fino alla Pieve di Commessano e, al piviere che era sceso ad aprirgli la porta, raccontò che nascosto dietro un vecchio pagliaio aveva udito berciare le più sconce canzoni, pronunciare orribili bestemmie ed infine- sempre a detta del viandante- il capoccia che soprassedeva al lavoro stravaccato sopra una cassapanca, aveva un piede di cristiano ed uno di capra!

La questione si fece seria tanto che il pievano decise di intervenire di persona. Accompagnato dal sagrestano che portava il secchiello dell’ acqua benedetta e dal giovane viandante che aveva accomodato alla ben meglio un crocifisso sopra una robusta stanga di quercia, si recò all’ Aia. Dietro le indicazioni dell’ ospite, il terzetto arrivò vicino al vecchio pagliaio da dove potevano osservare la scena senza essere visti.

E lo spettacolo che si parò loro dinnanzi agli occhi era tale da fare accapponare la pelle. Il capoccia, seminudo, era senz’ altro una creatura infernale. Aveva la fronte più alta che larga, senza rughe, che si allungava alle tempie in due piccoli rigonfi a corno nella massa dei capelli nerissimi ed opachi; le sopracciglia erano regolari ma rilevate, il naso aquilino, i baffi e la barba alla Mefistofele. La carnagione olivastra e leggermente butterata, aveva rughe ampie come una cotenna, gli occhi di un azzurro carico e, la sua gamba sinistra, terminava in un piede forcuto di becco!

Il giovane viandante, tremante di paura, ad un ordine del religioso, si fece avanti ipugniando il crocifisso come fosse una clava. Successe il finimondo! La turba, con le forcole e le palmole minacciava i nuovi venuti, ma quando apparve il Priore con alzato sulla destra l’aspersorio, i dannati caddero bocconi urlando. Il grano s’incendiò d’incanto e in pochi istanti fu tutto avvolto dalle fiamme.

Quando il piviere e gli altri si fermarono dopo una corsa disperata, videro che dai tizzoni ardenti e fumanti era riemersa la vecchia casa così com’era prima della venuta dei forestieri i quali, per altro, erano scomparsi insieme ai demoni tra le sibilanti lingue di fuoco.

L’Aia, da quel tempo, si chiamò Aia dei Diavoli.

La leggenda è sta ripresa dal sito www.lafumarola.it che ringraziamo per la gentile concessione