introduzione

I miei primi ricordi


memorie cammillo 001Nacqui nel comune di Pomarance il 24 febbraio 1872. Nacqui non tanto bene, perché fui per i miei genitori l’ottavo figlio. Mio padre, essendo semplice operaio, lavorava alle Miniere di lignite di Monterufoli, di cui erano possessori i Maffei di Volterra. Lavorando in detto luogo un brutto giorno mio padre fu colpito da un ‘’piccone’’ che lo pressò contro una parete della galleria in cui si trovava. Per tale strizzamento dovette andare all’ospedale; migliorò un poco e ritornò al suo lavoro. Non essendo guarito perfettamente, dopo poco tempo dovette tornare all’ospedale e vi morì, lasciando la moglie e quattro figli, perché quattro gli erano già morti antecedentemente. Di questi quattro il più grande aveva 12 anni ed io, il minore, poco più di un anno. A quei tempi, non essendoci alcuna assicurazione, ‘’morta la serpe, spento il veleno’’, così restò la mia povera mamma abbandonata da tutti, anche dai parenti, perché erano tempi tristissimi e nessuno ci volle intorno.
memorie cammillo 002Ho da ricordare che a quei tempi gli operai, gente adulta che avesse passato i venti anni, guadagnavano 80 centesimi al giorno e le donne e i ragazzi dai dodici ai venti anni centesimi 35 in campagna; nelle miniere gli uomini una lira e venti e ragazzi 50 centesimi. Mia madre non si perse d’animo: essendo di fibra forte e robusta e abituata a tutti i lavori campestri, si buttò con coraggio a fare erba e gremigna per la fattoria di Serra e con cosa guadagnava e con cosa portava, erbe e frutta, alla meglio ci sfamava. memorie cammillo 001E così andammo avanti per qualche anno, ma la Provvidenza di Dio nessuno abbandona. Un bel giorno venne un certo Baldassarre Baldassarri e disse a mia madre che qualcuno s’era interessato a noi e che aveva parlato col Ministro di Monterufoli, il quale gli aveva chiesto di domandarle se voleva tornare a Monterufoli come operaia fissa. memorie cammillo 004Due stanze senza pagare la pigione, una lira al giorno a lei e i due figli maggiori alla miniera ai lavori esterni con la giornata di 50 centesimi per uno: una lira in tutti e due. Lei doveva pensare a fare il pane ai cani, che ne avevano una ventina, più pensare a fare l’erba e altro ai daini, che ne avevano una mandria vicino alla fattoria. Mia madre accettò l’offerta con un “Dio ve ne renda merito”, come era in uso a quei tempi verso chi faceva del bene. Il giorno seguente andò subito alla fattoria a parlare con il Ministro per stabilire quando doveva tornarci, e fu cosa lesta, perché da Libbiano a Monterufoli ci sono appena 4 miglia e il Ministro disse che poteva tornarci anche subito. Combinarono due paia di bovi per portarci quella poca roba che si aveva e il giorno dopo partimmo per la nuova abitazione.
La sfortuna volle che, essendo la strada cattiva, un carro dette balta e si fracassò madia, tavolino e altra robetta che ci si aveva, meno male non ribaltò quello dove ero io e tutti ciottoli. Insomma alla meglio s’arrivò alla nuova abitazione senza altri incidenti, e lì stabiliti che fummo, ci sembrava di essere rinati da morte a vita, perché con due lirette al giorno a quei tempi si mangiava davvero! Queste sono tutte cose che mi hanno raccontato, perché io c’ero e non c’ero. Questa cuccagna ci durò due o tre anni: di questo me ne rammento anch’io.

 

 

Fallimento della miniera (1875-78 ca)


Un giorno, ai primi di ottobre, vennero i padroni in Villa con degli amici di Volterra, alle cacce. Di questo mi ricordo come fosse ieri, benché avessi all’incirca 5 anni, perché questa gente sembrava indemoniata, da quante ne faceva. Un giorno si misero a rovistare il palazzo e dopo aver fatto il diavolo a quattro, si videro buttare fuori dalle finestre materassi, guanciali e quanto gli capitava fra le mani: sembrava il giorno dl giudizio. Non contenti di ciò andarono in cantina e presero 2 botti di una decina di barili di vino per ciascuna e gli dettero la via. Siccome Monterufoli è fabbricato in cima ad un poggetto non roccioso con una pendenza del 70 o 80 per cento, queste botti per la discesa, troncando e rovesciando cosa gli capitava davanti, viti e alberi da frutto, andarono ad infrangersi giù al basso dove era un gran bosco di piante vergini. A questo spettacolo prendeva parte anche il fattore, un certo Carducci Giuseppe che non era niente di bono, bestemmiava come un turco e poi riguardo a quello che sciupavano lui non ci rimetteva nulla di suo. Voglio dire anche questa: siccome c’era un contadino che non stava tanto distante dalla fattoria, ad un podere che si chiama Poggio Vecchio, un certo Pucci ignorante quanto una spinta al buio, e bestemmiava che pareva avesse in corpo il demonio, questi giovani padroni nel tempo che stavano in Villa lo tenevano spesso con loro e ad ogni moccolo che diceva di nuovo gli pagavano da due a quattro soldi; figuriamoci l’impegno che lui ci metteva per trovarne sempre di nuovi! memorie cammillo 005A danno loro, sempre allo scopo di spregiare, si divertivano anche quando accendevano il sigaro e davano fuoco ad un foglio da 50 o da 100 lire a secondo dei casi e dell’importanza che gli volevano dare. Un giorno, non sapendo cosa fare di nuovo, siccome in cima al poggio bene accomodato dai loro antenati vi è un bel piano con in mezzo una chiesina molto graziosa dove tutti i mesi andava il pievano di Libbiano a dir messa, questi energumeni vi entrarono, si vestirono con i paramenti e celebrarono una messa a modo loro; non contenti di ciò si armarono di fucili e fracassarono ogni cosa senza portare rispetto né al ciborio ne ai santi.
Il fattore, benché un poco di buono, vedendo far questo scappò di soppiatto in fattoria e disse a sua madre: “io mi nascondo dentro il palazzo e se vengono i padroni a cercarmi ditegli che per cose urgentissime son dovuto partire e no so quanto dovrò trattenermi” - poi soggiunse - “ se Dio esiste oggi Monterufoli invece di un monte diventa una buca!” Sua madre, saputo ciò che era stato fatto, si mise a piangere, perché lei era una buona donna davvero; quanti pezzi di formaggio mi dava e pane bianco con avanzi di carne quando andavo a portargli il vilucchio per i leprotti che tenevano in un rinserrato proprio lì alla fattoria. Anche il fattore però mi voleva bene, infatti un giorno si arrabbiò ben bene con la guardia, un uomo brutto con una barbaccia che metteva paura; io me ne stavo a cavalcioni ad una botte che avevano tirata fuori per ripulirla quando questo omaccio mi disse: “ ora ti chiappo io!” - e io dalla paura mi misi a correre giù per la piaggia con il rischio di fare un ruzzolone e rompermi qualche osso. Dopo poco tempo questo brutto ceffo sparì, fu mandato via e lo sostituì un certo Amadori Ulisse, figlio di un vecchio guardia che stava a Caselli, una fattoria situata fra Canneto e la Sassa. Questa guardia aveva tre figlioli, due maschi e una femmina, il maggiore si chiamava Augusto e aveva la mia età, gli altri minori a noi erano Massimo e Roberta; vi era anche un falegname, Cipriano, con altre due bambine della nostra età Debora e Giannina. Io naturalmente ero il più povero perché non avevo il babbo, ma Cipriano mi trattava un po' come un figliolo e una volta per un malestro che io e Debora si era combinato ci fece una solenne sculacciata a tutti e due; quando lo seppe mia madre disse: “ ha fatto bene, Dio gliene renda merito”.
Laura, la moglie del falegname, di quando in quando voleva che stessi a mangiare con loro, specie quando facevano la polenta allargata che era differente da quella che ci faceva nostra madre, la faceva anche in casa dei padroni. Come polenta non c’era nulla di differente dalla nostra perché era fatta di farina di granturco, la differenza consisteva nella forma e nel condimento. Questa polenta era piuttosto soda e invece di votarla sulla spianatoia veniva vuotata sulla tovaglia un poco infarinata perché non si attaccasse, dopo veniva stesa con un mestolo, fine fine, poco più alta della sfoglia che si fa per i maccheroni. Avendo preparato precedentemente un bell’intingolo con rigaglie di pollo o con coratella di lepre, con questo veniva spalmata bene bene e ricoperta di formaggio grattato che sembrava ci fosse nevicato sopra, quindi col coltello veniva tagliata a quadretti ad uso maccheroni e poi servita in tavola. Ai padroni piaceva moltissimo e dicevano : “I contadini si lamentano perché mangiano sempre polenta, invece è un piatto eccellente!” Ma loro (i contadini) mica la mangiavano condita in quel modo: un po' di fagioli con tanta acqua perché facessero riuscita, oppure caciata appena che il formaggio non si vedeva perché era strutto subito; d’inverno i contadini la mangiavano sia a desinare che a cena e gli veniva a noia, mentre i padroni la facevano fare quando ne avevano voglia e perché non c’era altro.
Un giorno i padroni, non sapendo cosa fare, decisero di dare la via ai daini per poterli cacciare. Così fecero, ma in poco tempo li spersero, perché erano quasi domestici e non si sparpagliarono per i boschi come i cinghiali, era lo stesso che andare a caccia alle pecore o alle capre. E così fu finita per loro, poveri animalini!
Sono bestiole belle davvero. Sembrano vitellini di latte anche per il colore, sia da giovani che da adulti; la differenza sta solo nella coda e nelle corna. Il daino ha la coda corta come le capre e le corna l’ hanno fatte come i cervi, ma in cima invece della punta si allargano come un piede di un papero. Mettono un cornetto all’anno e dalle corna si può stabilire gli anni che hanno: quanti cornetti hanno su per il corno maggiore e tanti anni hanno. La femmina è priva di corna e per sapere l’età sua bisogna guardarla in bocca come fanno i bovari e calcolare gli anni dai denti, come le bestie vaccine. I daini sono di piè fesso e ruminanti come i bovi e le capre; appena nati fanno certi salti che per chiapparli bisogna essere molto svelti. Mia madre mi portava a vederli e mi diceva di chiapparli, ma io corri di qui e corri di là non ci riuscivo mai. Col tempo si addomesticano come gli agnellini e vengono a prenderti in mano il pane e le ghiande come le pecore e le capre.
memorie cammillo 001A fine caccia sparirono anche i cani. Parte se li portarono a Volterra per mandarli alle altre fattorie dove ne avevano pochi, ma quelli da cinghiale restarono perché dicevano che a San Donnino e Ariano le altre due fattorie, non ci sono grandi boschi e per questo non erano necessari i cani da cinghiale. A noi restarono otto o nove, tutti di una razza, ma dopo poco che erano partiti i padroni per Volterra i cani rimasti furono dati uno o due per contadino e in fattoria ne restò uno solo che si chiamava Moro, ed era un bel cane tutto nero con una voce che quando abbaiava faceva rintronare tutto il poggio.
Ecco sperti tutti gli animali che erano stati consegnati a mia madre, il fattore la chiamò e le disse: “Cara Teresa, mi dispiace tanto dirvelo, bisogna che voi torniate a Libbiano giacché avete ancora la casa libera. Ho avuto ordine da Volterra di licenziarvi come salariata però quando avremo bisogno di voi vi chiameremo; nel presente se volete accettare verrete due volte al mese a fare il bucato, come sapete che lo facciamo. Gli altri giorni vi procurerete qualche altro lavoro, in paese sarà facile trovare da fare qualcosa”. Così, mogi mogi, bisognò tornare da dove eravamo venuti, ma questa volta il carro non ci dette balta e si arrivò alla nostra vecchia abitazione senza alcun incidente.
Che cosa era successo nessuno lo sapeva, ma intanto la miniera di lignite e la ferrovia erano passate a una società e non lavoravano più per i Maffei. Il ministro Zambelli era sparito da qualche tempo, c’era rimasto soltanto il fattore Carducci. memorie cammillo 001Ma un giorno videro apparire dei signori lassù alla fattoria, uno di questi presentò un bel foglio tutto scritto con tanti bolli. Al fattore gli cascarono le braccia e disse: “ non credevo tanto presto..” Erano gli amministratori giudiziari; il Sig Maffei era andato fallito.
Mia madre seguitò ad andarvi a fare il bucato anche con i nuovi amministratori e dopo anche quando l’ebbe comprata un certo Oblieght, che dicevano fosse di Roma (ndr…Il 4 agosto 1887, dopo la morte di Niccolò Maffei e non avendosi trovato alcun acquirente, la miniera fu comprata all’asta dalla ditta Oblieght-Yungh….) seguitò finché fu vecchia e non fu più bona. I miei fratelli seguitarono ad andare alla miniera, mia sorella Assunta la mandò da un contadino a parare un po' di pecore e io me ne stavo a ruzzare e a fare il chiasso con gli altri ragazzi, perché ero sempre piccino. Andavo a fare qualche baldacchinio di legna con i compagni e preparavo l’acqua a mia madre. Alla fonte c’erano dei bei gelsi e noi ci fermavamo a ruzzare e a fare l’altalena, ci attaccavamo ad un ramo e dondola che ti dondolo, tutte le sere la solita storia. Finalmente il ramo si ruppe e per l’ appunto mentre io vi ero sopra e gli altri mi davano la spinta. Fatto sta che battei una solenne gropponata che me ne rammento anche ora a 60 anni; i miei compagni dovettero portarmi i fiaschi, perché io non ce la facevo da quanto mi doleva la vita. Giunto a casa preparai tutto a mia madre come di consueto: accesi il fuoco, misi l’acqua a bollire per fare la minestra e altre cosette che dovevo fare, poi me ne andai a letto, perché non ne potevo più. Arrivata mia madre, trovò tutto pronto, ma io non cero; mi chiamò e io gli risposi dalla camera, corse subito e mi domandò se mi sentivo male e io gli risposi di sì. Lei impaurita dice: ”Bisogna che vada subito da Gigione a pigliare il purgante altrimenti faccio tardi ad aspettare dopo cena. Ti purgo subito e domattina non hai altro, secondo il solito”. Io fui costretto a raccontargli tutto, non mi picchiò perché ne avevo abbastanza, ma me ne disse tante. Mi fasciò ben bene e dopo qualche giorno non fu altro, ma io sono rimasto nemico dell’altalena.
A Libbiano in quell’epoca c’era come pievano un prete venuto da Montecatini, Don Attilio Mori, e per serva aveva una certa Domenica di cui non rammento il nome. Questi mi volevano bene. Mi comandavano e io obbedivo sempre e così mi davano qualcosa da mangiare differente da quello che io avevo a casa. Per questo non erano a tempo a chiamarmi che io ero subito pronto, tanto più che stavo a due passi dalla canonica. Eravamo tre o quattro ragazzetti che gli si andava un po' a genio e per ricompensa ci dava un duetto per domenica per comprare i lupini, questa era la paga fissa, poi c’erano gli straordinari per le feste grosse e per gli sposalizi e lì si buscava anche qualche mezza liretta perché in quei giorni non c’è miseria. Questo pievano ci insegnò anche a cantare le lezioni di Natale e della settimana santa. A leggere e a scrivere ci insegnava pochissimo perché non era obbligato a fare scuola. A quei tempi non c’erano le scuole di campagna e a lui bastava che si borbottasse qualche po' di latino per aiutarlo nelle sue funzioni e poi, per dire la verità, ne sapeva poco anche lui. Era uno di quei preti fatti a cottimo come a quei tempi se ne trovava spesso nelle campagne, ma tutto sommato era un buon prete. In paese c’erano tre o quattro persone che sapevano leggere e scrivere, specie un certo Baldassarre Baldassarri che era magazziniere alla miniera di Monterufoli, ma questi sapevano, perché quando erano ragazzi c’era un prete, anche lui di Montecatini, e si chiamava Sarperi Don Gabbriello che era istruito davvero, ma noi, benché avessimo volontà di imparare si restò quasi analfabeti.

 

Lo Zio (1880-81 ca)


Una domenica mattina mi vidi apparire a casa un uomo che io non avevo mai veduto e domandò se stava qui una certa Teresa vedova Morandini. Io dissi: “Sì è la mia mamma, la volevi? La chiamo subito”. memorie cammillo 001La chiamai e venne. Appena si videro dettero in esclamazioni, s’abbracciarono e si baciarono, dopo quest’uomo mi baciò anche me e io domandai a mia madre chi fosse e lei mi spiegò che era un suo fratello e che erano tanti anni che non lo vedeva. E lì seppi tutta la storia, perché si misero a chiacchierare del più e del meno e mia madre anche lo rimproverava, perché si era deciso soltanto ora a farsi vivo e non prima quando aveva tutti noi piccini. Arrivarono i miei fratelli e ci si mise a mangiare e, nel tempo che si mangiava, disse se mi voleva mandare con lui, che gli avrei fatto anche un po’ comodo perché suo fratello Simone aveva la famiglia piccola, non di numero, ma di età. Aveva infatti tre figli maschi e una femmina, questa si chiamava Cleofe e aveva la mia età, gli altri, Angiolino, Massimo e Terzilio erano più piccoli. Abitavano in un podere e ci avevano un branchetto di pecore e uno di capre, non potevano guardare i due ragazzi maggiori, perché i due branchi insieme non potevano andare e Massimo era troppo piccino per mandarlo da solo. La ragione di tenerli separati è questa: le capre bisogna mandarle al bosco perché si cibano di molta foglia di alberi e le pecore ai sodi perché si cibano di erba; dunque avrebbero mandato me con Massimo alle pecore e Cleofe, che era un po’ più grandicella alle capre. E lì in un monte di promesse: siccome si era ai primi dell’estate la stagione si prestava benissimo per convincermi, infatti ci sono il formaggio e la ricotta a volontà e la frutta nei campi. Così fu deciso di mandarmi, però con un monte di raccomandazioni, tanto da parte di mia madre come dei miei fratelli Luigi e Ferdinando; mancava il consenso di mia sorella Assunta che si trovava alla Leccia a servizio da un vecchio prete.

 

A La Sassa


memorie cammillo 001La mattina seguente partimmo io e mio zio per andare a casa sua, cioè dove stavano i miei parenti, in un podere non molto lontano da Sassa, che si chiama Giuncaio, col cavallo di San Francesco benintesi, benché non fosse molto distante da dove stavo io. Dopo circa tre ore di cammino arrivammo a casa.
Lì un monte di feste da parte di tutti i componenti della famiglia. Conobbi la zia Artemisia, moglie dello zio Simone e i miei cugini di cui aveva parlato lo zio Gosto quando era venuto a prendermi. Il giorno dopo mi portarono con loro con tutto il gregge riunito per farmi imparare le pasture. Andammo su per quei monti alti che quando s’era in cima si godeva un bellissimo panorama. Si vedeva tutta la pianura che si stende da S. Vincenzo fino a Vada, con tutti quei paesi e poderi col mare che brillava e le isolette di Capraia e della Gorgona, con le barche a vela che da memorie cammillo 001lontano sembrano casine e ogni tanto si vedono apparire delle grosse navi che sembrano fattorie, e poi tutta quella pineta dietro mare che di lassù sembrava una siepe che voglia dire: questo è il confine della grande tenuta dell’Arcipelago Toscano; insomma una meraviglia che io rimasi incantato anche perché non avevo mai visto il mare né da vicino, né da lontano. Siccome in cima a questi poggi non solo ci andavamo noi, ma tutti i bestiai che c’erano nei dintorni, e tra noi ragazzi c’erano anche persone anziane, un uomo mi disse: “Non solo a te piace questo panorama; vedi là su quel poggettino? C’é un osservatorio fatto a posta che ci vengono anche da lontano a guardare coi binocoli e altri aggeggi che chiamano ‘’cannocchiali’’, vedi ancora quel monte lassù? Si chiama Poggio all’Assenzio e vi è un torrino come quello vicino a noi, vuoi vederlo?’’ Andammo a vedere. Consisteva in un rialzo a muro di 2 0 3 metri con diversi gradini per andarvi e in cima era vuoto; sembrava di essere dentro a una botte, perché fino all’altezza del petto d’uomo vi era anche un muricciolo per appoggiarvi le braccia oppure cannocchiali. memorie cammillo 001Dei miei parenti nell’insieme non potevo lamentarmi, non c’era un guaio nel mangiare, perché erano molto poveri. Il pane lo facevano assai tristo, perché gli mancava il grano per arrivare in fondo all’annata; lo mischiavano con l’orzo e perciò gli veniva cattivo e se non c’era un po’ di companatico non era possibile mangiarlo, a inzupparlo era ancora peggio perché faceva tutta una brodaglia, però in compenso c’erano il formaggio e la ricotta che per noi ragazzi era un alimento che suppliva la mancanza del pane buono. Ma io rammentavo sempre mia madre, perché lì non mi trattavano tanto bene, stavo tanto meglio a casa mia perché il pane d’orzo mia madre non ce lo faceva mai mangiare, il pane lei lo voleva di grano, magari con poco o senza companatico, e prima di farci mangiare il pane cattivo ci faceva la polenta, e poi a casa mia ero il beniamino e lì no.
Se mia zia aveva la rabbia se la rifaceva con me e giù scapaccioni e io piangevo e volevo che mi riportassero a casa mia e loro rispondevano: “Se vuoi andare sai come fare!” Ma la strada era molto lunga e poi bisognava attraversare molto bosco e non potevo rintracciarla da solo perché vi ero passato una volta sola. Dopo passava tutto e mia zia si degnava di farmi anche qualche carezza. Certo anche lei aveva un po’ di ragione a lamentarsi del suo destino, vedeva che le cose non andavano bene, ma sbagliava a rifarsela con me perché io non avevo a che fare nulla con la loro miseria, in fondo mi ci avevano portato loro non ero andato io a cercarli. Intanto tra il bene e il male erano passati tre mesi e si era giunti alla metà di agosto.

 

Il Montone


Principiava a maturare l’uva e altra frutta e noi ragazzi si era ghiotti di queste cose e non gli si portava rispetto davvero. Avevo principiato a starci volentieri e anche la zia pareva che mi volesse un po’ più bene, perché ormai mi ero impratichito del posto e me ne andavo col mio gregge in pastura come un vecchio pastore. Una sera, mentre riportavo il mio gregge all’ovile, si immischiò con le mie pecore un grosso montone di un altro branco, perché vi erano delle pecore in caldo, e non ci fu verso né io né il suo padrone di rimandarlo nel suo branco, infatti diventava così cattivo a infastidirlo che cominciava subito a bicciare. Così fu gioco forza fargli fare il suo comodo e farlo venire con le mie pecore. Appena arrivato a casa lo dissi subito ai miei zii e loro mi risposero di lasciarlo fare perché la mattina sarebbe tornato certamente col suo branco. Io avevo parecchia paura e avrei voluto che qualcuno di loro mi accompagnasse, ma non ci fu verso di convincerli e così, dopo avermi raccomandato di non dargli noia che lui mi avrebbe lasciato in pace, mi mandarono solo.
memorie cammillo 001Andai e feci del mio meglio come loro mi avevano consigliato, ma arrivato a un certo punto, questo animale si fermò con una pecora a mangiare mentre le altre seguitavano la loro strada per andare al pascolo, io allora perché questi due animali non mi restassero indietro andai col bastane per scacciarle. Non l’avessi mai fatto! Questa bestiaccia, senza punto pensarci, mi rifila una tale zuccata che mi fece rotolare giù per un fossetto. Io sapevo che stando sdraiati per terra non poteva più offendere e allora stetti fermo lì e intanto guardavo di traverso quello che faceva la bestia. Lui vedendomi fermo e forse credendomi morto, se ne andò per raggiungere il branco. Io, visto che non si curava più di me, mi alzai, ma appena fui in piedi, senza aspettarmelo, mi sento dare una maledettissima zuccata nel groppone che mi scaraventò di nuovo nel botrello. Io urlavo e piangevo, ma questa brutta bestia mi mise al silenzio tempestandomi coi piedi e con le corna benché fossi in terra quasi morto dal gran colpo che mi aveva dato. Forse credendo di seppellirmi si mise a bicciare l’argine del fossetto e la terra che smuoveva la scaraventava giù dove ero io. I miei zii che erano nel campo non tanto lontano da noi avevano sentito urlare e alzando la testa per vedere cosa era successo, scorsero il montone che mesticciava e le pecore lontane da lì. “Vo’ scommettere che il birro ha bicciato quel ragazzo e l’ha buttato nel fossetto” – dissero, e corsero subito lassù con la zappa in mano. Questa bestiaccia appena li vide si precipitò a dare anche a loro e il mio zio si buscò un bicciotto a una mano perché credeva di impaurirlo con la zappa alzata, ma erano due uomini e alla meglio riuscirono a immobilizzarlo, ma ci volle del bello e del buono.
Uno reggeva il montone e quell’altro prese me in collo e mi portò a casa. Dice che parevo un ecceomo da quanto ero pesto e imbrattato di sangue e non davo segno di vita. Corsero subito a chiamare il medico credendo di vedermi morire da un momento all’altro. Questi mi fece lavare e mi ascoltò, non trovò rotture, mi fece bere non so che cosa e disse di non muovermi, l’indomani sarebbe tornato. Gli zii mi raccontarono che stetti un paio di giorni senza aprire gli occhi da quanto ero gonfio per le ferite che avevo nel capo e non potevo parlare perché mi dolevano le ganasce, ero un vivo morto. Ma si vede che la mia storia non doveva finire lì, perché dopo pochi giorni cominciai a tornare in me. Mi custodivano e giorno dopo giorno miglioravo, ma questo custodimento non veniva dalla casa degli zii, ma dai padroni del birro, certi Querci, ai quali premevo quanto ai miei parenti, perché la gente diceva che la colpa era di loro che non dovevano mandare libero un animale così cattivo. Fatto sta che fra una cosa e l’altra saltai giù dal letto, però ero tutto bigio nel petto, sulla schiena e nel capo ma mi sentivo bene e sarei tornato alla mia occupazione se i miei parenti mi ci avessero mandato, ma loro non ne vollero più sapere tanta era stata la paura che avevano avuto.
Un giorno, quando meno me lo aspettavo, mi dice mio zio Gosto: “Domani ti porto dalla tua mamma, ne abbiamo avute abbastanza con te”. Io allora risposi: “Ora che c’è tutto per i campi e c’è anche il grano perché s’è tribbiato e il pane non è più cattivo come quando arrivai, volete mandarmi via?” -”Caro mio lo so che ora il pane è buono, ma con una bocca in meno ci basta un po’ di più; le faccende sono finite e alle bestie ci può andare uno di noi, tanto fino alla sementa non si fa quasi nulla nei campi”:
Gli risposi che ero contento di tornarmene a casa mia e gli ricordai di tutte le botte che avevo preso dalla zia, specialmente quando me le aveva date col bastone perché un giorno avevo riportato le pecore all’ovile più presto del solito e lei disse che non avevano mangiato abbastanza. Mia zia la sera preparò un fagottino dei miei cenci e dentro mi ci mise una bella forma di cacio. La mattina presto partimmo per tornare a Libbiano rifacendo la strada che avevo fatto all’andata. Piano piano arrivammo alla serra di Micciano, proprio ai casali dove si vede Libbiano di faccia e la strada che vi conduce. Lì ci fermammo per riposarci, e nel tempo che ci riposavamo mio zio disse:
“Scommetto che di qui a casa ci andresti anche da te”:
“Certo che ci andrei” -risposi, - “Cosa ci vuole di qui ad andare nel Ladio; non ci sono che campi, e io quella strada l’ho fatta tante volte per venire a fare i bagni giù nel torrente coi miei compagni!”
“Allora puoi andare da te, così io torno indietro”.
“Fate come volete, ma sarebbe meglio che veniste a casa, così rivedreste anche mia madre perché se state tanto quanto siete stato nel passato, chissà se vi rivedete più”.
“E’ meglio che non ci venga ora, perché vedendoti così chissà quante me ne direbbe e io dovrei dare un monte di spiegazioni, ritornerò presto a trovarvi”.
Mi dette due bei soldoni, ossia due pezzi da 10 centesimi, e mi lasciò. Io presi giù per la discesa e in quanto ve lo dico fui nel Ladio, lui non so se si fermò a guardarmi, fatto sta che io non lo vidi più e me ne andai a casa mia.
Giunto a casa, mia madre non ce la trovai, perché era in campagna a fare l’erba per la fattoria di Serra, sicché trovai l’uscio di casa chiuso e dovetti andare da una vicina a posare il mio fagottino, ma la gente che mi vedeva mi domandava cosa avevo fatto per avere tutta la pelle così paonazza e io dovetti dare spiegazione. La Menica, serva del Pievano, appena mi vide dalla finestra mi chiamò e mi disse che la mia mamma sarebbe tornata di lì a poco, nel frattempo mi fece salire su da lei a raccontare cosa mi era successo. Mi fece sedere a tavola, mi portò del pane e del companatico e un bel bicchiere di vino, intanto era apparito anche il pievano che era nel suo ufficio a dire l’offizio e io mentre mangiavo gli raccontai tutto quello che mi era accaduto per filo e per segno.
Ogni tanto la Menica dava in esclamazioni: “Poro Cammillo, come l’hai passata brutta!”
Dopo non molto tempo che eravamo lì a chiacchierare si sentì bussare alla porta. La Menica andò ad aprire ed entrò mia madre che era tornata da fuori e le avevano detto che mi trovavo in canonica. Appena mi vide mi abbracciò e io mi misi a piangere dalla contentezza di essere di nuovo a casa. Passata l’emozione dovetti raccontare tutta la storia anche a mia madre, ma quando le dissi che suo fratello non era voluto venire fino a casa si arrabbiò sul serio e diceva: “Lo rivedrò qualche volta! Vedrà che quello che aveva paura che gli dicessi oggi, non glielo risparmio neppure fra centa’anni!” Siccome tutto ha fine, finirono anche le lamentazioni di mia madre. Piano piano mi tornò la pelle come prima e tutto passò.
Io avevo poco più di 10 anni, cominciavo a fare qualche cosa: andavo a raccattare il concio poi si vendeva e qualcosa si pigliava; andavo a cercare i funghi e anche lì qualcosa buscavo, oppure si mangiavano e si seccavano nell’inverno con la polenta; quando era il tempo andavo con mia madre a raccattare le ulive e così tutto faceva. E intanto il tempo passava. Fu sospeso il lavoro alla miniera dove i miei fratelli Gigi e Nando erano a lavorare. Crisi di lavoro. Fu necessario che si buttassero ai lavori nel bosco, a fare la scorza, e portavano anche me. Io non ero buono a nulla per questo lavoro, poco anche loro perché non erano pratici, ma nel fare si impara, Io andavo a pigliare l’acqua e rimettevo un po’ di legna, insomma mi ingegnavo a rendermi utile. Quando non avevano lavoro andavano alla buchina a prendere l’acqua salata per fare il sale, io e mia madre facevamo la legna per far bollire l’acqua e ricavarci il sale e così in un modo o in un altro la vita si scampava. A mio fratello Luigi venne voglia di prendere moglie e siccome andò con lei rimanemmo io, mio fratello Nando e mia madre. Nando prese in affitto un pezzo di terra da scassare e così quando non aveva lavoro si andava tutti e tre a lavorare lì. Un giorno venne una persona a cercare uomini che sapessero minare, perché a Saline di Volterra facevano un pozzo per trovare il sale. Vi andò anche mio fratello Nando che era pratico nell’assottigliare i picconi, questo lavoro lo faceva infatti anche quando era alla miniera di Monterufoli.
Per non lasciarmi bighellonare mi mandarono col Dieci, ossia Paolo Danzini, detto il Dieci perché era un fanfarone e un vantatore. Fu combinata una paga di 30 lire, il mangiare e un paio di calzoni per tutto l’inverno: era poco ma mangiavo e imparavo a lavorare, perché lui il mestiere di boscaiolo lo sapeva davvero. Quest’uomo era un po’ ‘matematico’, ma di cuore non era cattivo. Era un bestemmiatore come non se ne trovava l’uguale, ogni parola almeno due, tre moccoli, ma non bestemmiava per cattiveria e perché non credeva in Dio e la Madonna, ma bestemmiava per darsi importanza e per fare rabbia a chi lo sentiva. Così andai con lui.
Appena arrivammo al bosco, cioè al suo lotto, scelse il posto dove fare il capanno che doveva servire di alloggio per la notte e per quando era stagionaccia e non si poteva lavorare.

 

IL CAPANNO (anni ‘80 del 1800)


Questo capanno era costruito con pezzi di legno lunghi tre metri circa ed erano appoggiati ad un altro bacchio che serviva da trave, lungo tre metri circa, a secondo quanto volevano fare lungo il capanno. Questo era sostenuto da due colonne, una in cima e una in fondo; sistemata l’armatura si facevano delle pellicce di terra cercando che fosse ben infeltrita di erba. Secondo il costume boscaiolo queste cominciavano dalla base a rivestire tutta l’armatura andando fino al comignolo come fanno i muratori con gli embrici e le tegole. memorie cammillo 001Si lasciava un’apertura per porta e un foro in alto per il fumo, dopo si preparavano i nostri giacigli che noi boscaioli chiamavamo rapazzole. Venivano preparati uno da una parte e uno da un’altra, lasciando nel mezzo un certo spazio per accendere il fuoco quando è stagionaccia e nella notte d’inverno.
Queste rapazzole servono da letto e per starci a sedere, perché ritti non è possibile starci essendo il capanno assai basso a causa del freddo, e neppure c’è lo spazio sufficiente per qualche sedia o panca. Queste rapazzole sono fatte di piccole bacchiole all’altezza di circa 30 cm da terra per via dell’umido.
Fatta la stessa simile a un graticcio che si usa per battere le materasse, ci si procurano delle frasche di leccio, si dicioccano bene e si stendono sopra a questi bacchiotti in modo che servano da materasso. Stiamo nel capanno 8 o anche 15 giorni, a secondo quanto siamo lontani da casa, ma quando si arriva si puzza di fumo e li lezzo che non ci si può accostare a nessuno. Le nostre donne devono cambiarci e ripulirci i panni per poter ritornare al lavoro.
In quanto al mangiare, cose semplicissime: d’inverno la mattina alle 10 una bella polenta e la sera per cena un’altra bella polenta avendo cura che ci avanzasse un po’ per la mattina dopo e farla arrostita in luogo del caffè. Il companatico consisteva in aringhe o salsiccie o qualche poco di formaggio, di questo si faceva molto a “miccino” perché costava caro in confronto al guadagno. Il carbone ce lo pagavano 1 lira e 80 oppure 2 lire la soma, ma per tagliare una soma di carbone ci voleva almeno una gioprnata. C’era da spaccare la legna, perché a quei tempi c’erano molte piante grosse e dopo si doveva portare alle piazze, ossia alle carbonaie, dopo c’era da cuocerla e dopo cotta, se tutto andava bene e non ci si metteva di mezzo un capriccio del vento capace di trasformare la carbonaia in un ammasso di cenere, si portava all’imposto, il mercante teneva conto soltanto di quello che arrivava. C’era la tara del dieci per cento, il rinsacco era l’8 per cento, perché dicevano che le balle portate dai muli a basto, quando arrivavano a destinazione calavano un buscherio.
I padroni tenevano la dispensa per i generi da mangiare e se si voleva dispensa libera ci ritenevano il 10 per cento sull’importo della lavorazione. In una parola quando si andava a fare i conti a fine lavoro chi non aveva guardato bene a quello che doveva fare se ne tornava a casa con tanto di debito.

 

ALLA MACCHIA COL DIECI (anni ‘80 del 1800)


Per la prima volta che io andai a lavoro alla macchia fui consegnato a questo mezzo matto del Dieci; appena si ebbe sistemata la nostra abitazione, cioè il capanno, mi dice:
“Tu sei il Meo. Devi pensare a provvedere l’acqua, procurare la legna secca per accendere il fuoco per la polenta, stacciare la farina e fare la polenta”.
“Va tutto bene, ma il guaio è che io la polenta non l’ho mai fatta”.
“Ti insegno io e vedrai che impari subito; ora faccio la cucina”.
memorie cammillo 001Prese la zappa e fece un arginello, presso il capanno fece una bella buchettina che ci stava di sigillo il paiolino; dopo ci fece 2 o 3 fessure perché ci uscisse il fumo e “Ora guarda come si fa la polenta”. Prese un poca d’acqua e la mise nel paiolino, sufficiente per 2 persone, troncò un poca di scopa secca e la mise dentro la buchetta, dopo vi mise dei rametti più grossi e dette fuoco alla scopa e mise il paiolo sul fornello. Prese la sacchetta della farina stacciata, la aprì e la pose prossima al fornello, poi stese un tovagliolo su una rapazzola nel capanno avendo cura di sbrillarci un po’ di farina, prese un “ramacciotto” che aveva pulito bene bene e disse:
“Questo è il mestone: ora attento a come si fa la polenta!”
Il paiolo bolliva, allora prese due giumelle di farina, le buttò dentro il paiolo e principiò a “bordare” avendo cura che ci fosse un bel fuoco. Neppure in dieci minuti la polenta fu già cotta. La ravversò un pochettino col mestone, la trillò un po’ di qua e un poi’ di là, la levò di corsa e andò a vuotarla sul tovagliolo riportando il paiolino intorno al fornello, torna nella capanna, piglia un filo di refe, taglia in croce questa polentina e mi dice:
“Cosa s’ha fare? S’ha mangiare caciata?”
“Per me fa lo stesso”.
“Caciamola, ti voglio insegnare come si fa a caciarla”.
Riprese il paiolino, se lo mise tra le gambe e riprese il filo che aveva usato per tagliarla; un capo se lo mise in bocca e l’altro se lo avvolse al dito mignolo e cominciò a tagliare uno degli spicchi che aveva fatto in modo che le fette venissero triangolari. Le posò in piano una alla volta nel paiolo e quando ebbe fatto uno strato prese la grattacacia e un pezzo di formaggio e fece una belle grattata, poi prese il pepe macinato e gli dette una brillantina anche di questo. Così in quest’ordine piano piano finché ci fu polenta. Così preparata finalmente ci si mise a mangiare e si smise quando non ce ne andava proprio più; quella avanzata la rilevò dal paiolo e la rimise nel tovagliolo perché nel paiolo non ci doveva ghiacciare per via del verde rame che sarebbe stato velenoso per noi. Gli dissi che mi pareva che ci avesse messo tanto formaggio sulla polenta, ma lui mi spiegò che era proprio quello che ci dava energia, perché la polenta serviva appena per tenerci in piedi. Finito di mangiare lui accese la pipa e si andò a lavoro. Cominciò a tirare giù pennatate e accettate che pareva un matto e il lavoro gli riusciva davvero, io facevo del mio meglio per tenergli dietro, ma ero troppo giovane e inesperto. Durante il lavoro non smetteva di bestemmiare e io qualche volta mi azzardavo a dirgli che era inutile sprecare tanto fiato senza considerare che faceva un gran peccato, ma lui non intendeva ragionare e diceva che voleva bestemmiare fin tanto che aveva fiato in corpo.
Una volta mi disse:
“Non mi importa proprio nulla di andare in paradiso, dillo pure al prete che al mio posto ci mandi chi vuole lui, io glielo cedo per nulla. Se dovessi invecchiare e avessi dei figlioli e non potessi più comandarli e dovessi fare il comodo loro, comprerei una corda e mi impiccherei a un leccio, ho detto a un leccio perché è la pianta che mi garba di più e così la gente dirà: Il Dieci ha abbattuto tanti lecci e finalmente ne ha trovato uno che ha abbattuto lui”.
Una sera dopo cena, nel capanno, in tempo di veglia a lume dei ginepri che io mi procacciavo durante la giornata e spaccavo in modo che potessero illuminare il nostro piccolo ricovero, il Dieci mi annunciò che aveva deciso di prendere moglie. Io lì per lì credevo che scherzasse e non lo presi sul serio, ma lui non scherzava per nulla e mi disse che la ragazza si chiamava Teresina, che era di Micciano e che aveva già trovato casa a Libbiano per tornarci dopo sposato. Non mi rimase altro che augurargli tanta felicità con tanti dubbi che lei veramente si potesse trovare bene con un tipo come lui.
Intanto il tempo era trascorso e io mi ero impratichito del mestiere di boscaiolo, sapevo anche adoperare gli arnesi e adoperarli. Il Dieci, ora che era fidanzato spesso andava a Libbiano e io restavo da solo nel capanno, ma la notte per non dormire solo in un posto così isolato, nelle valli di Corno al Bufalo presso Monterufoli, andavo a dormire a un podere presso la fattoria; si chiamava Monterufolino e ci abitava una famiglia molto perbene, certi Sordi e io a volte ci andavo e qualche volta andavo alla capanna dei carbonai, ma purtroppo erano a ristretto e io per non dare tanto incomodo cominciai ad abituarmi a stare da solo, specialmente quando era bel tempo.
Una notte, si era nel gennaio del 1886, il mio compagno che nel frattempo aveva già preso moglie, come al solito andò a dormire a casa e mi disse che l’indomani sarebbe arrivato tardetto perché la mattina presto faceva molto freddo e non si poteva lavorare, io dovevo fargli trovare pronta la farina per fare la polenta e non perdere altro tempo, lo staccio sarei andato a prenderlo dai carbonai. Partito il Dieci, io quando fu l’ora di smettere di lavorare me ne tornai al capanno deciso a non andare né dai carbonai dove c’era poco posto né al podere che era parecchio lontano. Mangiai quello che c’era e mi buttai sdraiato perché ero anche stanco e la mattina dopo volevo preparare per tempo quello che mi aveva detto il mio compagno. La notte mi destai, come ero solito per fare un bisogno, e misi fuori il capo dall’uscio: con mia sorpresa vidi tutto bianco, era nevicato e nevicava ancora con certi fiocchi che sembravano batuffoli di cotone. Misi un po’ di legna dentro perché non s’ammollasse, richiusi l’uscetto, ravvivai il fuoco e mi misi a dormire.
La mattina m’alzai e vidi tutti i monti pieni di neve, il bosco era così carico e così bianco che sembrava non ci fossero neppure le piante, il terreno era tutto un pari, la neve era alta più che a mezza gamba. Che dovevo fare? Non restava che rassegnarsi a stare dentro il ricovero e aspettare, perché continuava a nevicare. Attesi finché potei, ma quando la fame cominciò a farsi sentire dissi fra me: “Qui qualcosa bisogna che inventi, fuori non è possibile accendere il fuoco perché c’è la neve alta, come faccio a fare la polenta?” Pensai allora di legare una fune al comignolo del capanno e lì legarci il paiolo, ma il guaio era col paiolo sospeso non l’avevo mai fatta. Legai la fune, legai il paiolo e feci fuoco, quando l’acqua cominciò a bollire buttai giù la farina, non stacciata perché lo staccio era dai carbonai, e cominciai a ‘bordare’, ma il paiolo mi dondolava qua e là e non mi riusciva di tenerlo fermo, la farina non si impastava e così, visto che non arrivavo a nulla, decisi di vuotarla. Quando l’ebbi buttata nel tovagliolo andò tutta in briciole come se fosse stata segatura; mi sarei messo a piangere dalla disperazione, ma mi feci coraggio e mi decisi a mangiarla. Appena la misi in bocca era così cattiva di sapore e così mal cotta che pareva non fosse stata neppure sul fuoco; un poca la mangiai perché alla fame non si comanda, ma poi la misi in un cantuccio con la speranza che capitasse qualcosa a levarmi dal guaio. Intanto il tempo non si rasserenava, veniva giù la neve che era un piacere vederla, quando circa alle due dopo mezzogiorno mi sembrò di sentire una voce che mi chiamava, metto fuori il capo e ascolto: la voce si rinnova e io rispondo.
Erano i carbonai che, andati a controllare le carbonaie, avevano visto il fumo sortire dal mio capanno e pensando che vi fossi bloccato dalla neve, come infatti c’ero, si misero a chiamarmi per sentire se avevo intenzione di andare con loro; risposi di sì, ma come fare a rompere tutta quella neve? Gli dissi che mi venissero a incontrare perché la viottola non si distingueva più; allora vennero giù con un ‘bacchio’ in mano e piano piano riuscirono a riaprire il viottolo per venire giù da me. Appena arrivati vollero sapere come me l’ero passata in tutta quella notte e io gli raccontai della polenta e gliela feci vedere, ci fecero una bella risata e si decise di farla in società: portai la farina e il companatico nella loro capanna e si mangiava insieme, dopo mangiato i due più giovani insieme a me andarono nel mio capanno a chiacchierare, perché anche loro erano fermi col lavoro e così passammo un paio di giorni: al terzo giorno che eravamo bloccati dalla neve arrivò il Dieci a vedere se ero ancora vivo e mi portò a casa in attesa che fosse andata via la neve.
Quando la neve fu strutta tornammo al nostro lavoro. Intanto si avvicinava la primavera e una mattina, mentre stavo lavorando, vedo apparire il mio compagno che mi dice: “Vai a vedere chi c’è al capanno e porta una barletta d’acqua.
Andai e trovai sua moglie con una creaturina di poco più di un mese; la povera donna piangendo mi disse che lui per forza l’aveva voluta portare con sé al capanno senza voler intendere ragione, lei era disperata perché mancava di tutto e non sapeva neppure dove trovare l’acqua per lavare i panni della bambina.
Le insegnai dove andare, in un fossato che scorreva poco lontano dal capanno, ma per prudenza durante la sua assenza io sarei rimasto a sorvegliare la bambina, per paura che qualche animale si avvicinasse e le facesse del male. Avvisai il Dieci e lui a malincuore acconsentì dicendo alla moglie di sbrigarsi che non si poteva perdere tempo nel nostro lavoro. La donna rimase con noi cinque giorni e io spesso facevo il bambinaio; finalmente il sabato si tornò tutti a casa e la moglie con la bimba vi rimasero anche quando noi si riprese il lavoro.
La gente diceva che quest’uomo si comportava così perché era geloso, senza averne motivo, perché la Teresina era una buona donna e anche la suocera le voleva bene, l’aiutava come poteva specialmente quando si accorgeva che il marito, da quel violento che era, la picchiava. Per questo motivo il Dieci spesso la sera tornava a casa a dormire e così io sempre più spesso restavo da solo al capanno.

 

LE SCARPE BRUCIATE


memorie cammillo 001Il lavoro in questo periodo si svolgeva piuttosto lontano dal nostro capanno, eravamo infatti su di un poggio vicino ad un podere abitato da contadini che più volte mi avevano detto di andare a passare la notte da loro. Poiché la sera mi trovavo spesso solo, decisi di accettare il loro invito e così si passava meglio il tempo a veglia raccontandoci qualche fatterello. Erano molto gentili e volevano portarmi anche a dormire a letto con un vecchio che era solo, ma a me pareva di dargli troppo incomodo e preferivo dormire su di un cassone presso il “focarile’’ dove si stava benissimo e così la mattina potevo andarmene quando mi pareva senza svegliare nessuno. Tutto procedeva bene finché una notte capitò un inconveniente.
Era stata una giornata parecchio fredda e i contadini la sera a veglia avevano messo sul fuoco un bel ciocco insieme ad altri più piccoli, così che si stava magnificamente; quando fu l’ora ci si augurò la buona notte e loro andarono nelle loro camere, io mi accomodai nel mio giaciglio e mi addormentai. Saranno state le 3 o le 4 del mattino quando mi svegliai a causa di un cattivo odore che sentivo nelle narici e non potevo respirare. Apro gli occhi e vedo tutta la cucina avvolta in una biga di fumo; m’alzo carponi perché ritto non ci potevo stare a causa del fumo e vado ad aprire la porta; mi accovaccio per terra aspettando che sortisse quella nega di fumo; non appena si dilegua un po’ torno al focarile per vedere cosa era stata la causa di tutto ciò. Con mia grande sorpresa vidi che il ciocco, bruciando, era rotolato verso di me e si era fermato poco distante dal cassone dove io dormivo e lì per terra c’era tutto un braciere di fuoco. Prendo il resto di quel ciocco, lo rimetto sul focolare e dopo prendo la paletta e raccatto tutta quella brace che era per terra; nel fare questa operazione vedo due carboni neri neri, me li tiro vicino per vedere cosa erano e mi accorgo che erano nient’altro che le mie scarpe carbonizzate. E pensare che me le avevano comprate la domenica prima!memorie cammillo 001
“E ora, dico fra me, come faccio? Che non ne ho altre né al capanno, né a casa?” Stetti un po’ a pensare e poi mi venne in mente che al capanno vi era un paio di scarpe vecchie del mio compagno e senza riflettere oltre mi incamminai verso il capanno con ai piedi le sole calze che per fortuna erano di lana grossa.

Quando i contadini si alzarono e videro tutto quell’affare, specialmente le mie scarpe bruciate non seppero cosa pensare e si preoccuparono per me; si immaginarono che fossi tornato al capanno, ma avevano paura che mi fosse successo qualcosa di male. Il nonno specialmente era in pensiero perché conosceva mia madre e mi aveva anche un po’ raccomandato a lui, così venne a cercarmi al bosco e mi rimproverò perché ero andato via alla chetichella senza avvertire nessuno. Da quella sera, senza farmi pregare, quando il nonno diceva di andare a letto io subito mi avviavo su per le scale. Per quanto era successo fui sgridato anche da mia madre e dal Dieci, ma pensando che in fondo mi era andata bene, perché se non mi svegliava il puzzo di cuoio potevo bruciare io, non la fecero lunga più di tanto. Terminato che fu il lavoro, questo Dieci mi snocciolò le belle trenta lire e mi comprò un bel paio di pantaloni di fustagno, ma io fra me pensai: “Speriamo che sia l’ultima volta che lavoro con questo matto”.
Lui, dal canto suo, si lamentò di me soltanto perché non gli era riuscito insegnarmi a bestemmiare come lui.