Pianta annuale, biennale o perennante dal portamento di un piccolo cespuglietto, alto da 30 a 60 cm.
Ha radici fusiformi piuttosto ramose, il fusto eretto o ascendente di forma cilindrica, densamente peloso-lanuginoso e appiccicoso, talvolta legnoso alla base.
Le foglie sono alterne, lanceolate, con margine sinuoso, talvolta dendato; lunghe 6/10cm, tutte portate da piccioli. Hanno consistenza piuttosto carnosa e diminuiscono la loro grandezza nella parte più alta della pianta. Il loro colore è verde scuro nella parte superiore, più chiaro in quella inferiore con leggere nervature.
I fiori sono portati da infiorescenze densamente fogliose, disposti quasi in maniera unilaterale. Hanno un calice verde villoso, lungo circa 1 cm, con 5 lobi arrotondati di cui i 3 superiori più grandi degli inferiori, di colore giallo pallido con l’interno scuro.La pianta inizia la sua fioritura fin dal primo anno.
Il frutto è una capsula a due sezioni (pisside) ovale, glabra di colore verdastro, che rimane racchiusa nel caratteristico calice allungato. All’apertura del piccolo coperchio disperde i suoi numerosi semi scuri, di forma ovata.
La pianta è altamente tossica. Nelle foglie, nei semi e nelle radici sono contenuti principalmente due alcaloidi: la josciamina e la scopolamina che durante il riscaldamento o l’essiccamento delle parti si trasformano in atropina. La loro ingestione dà assopimento, sonno profondo e può addirittura provocare la morte.
In passato veniva utilizzata come anestetico durante le operazioni chirurgiche e come potente allucinogeno nelle pratiche magiche medievali. Il Giusquiamo era già conosciuto come pianta medicinale dai Babilonesi, Egizi, Arabi, Greci e Romani, che la usavano sia come calmante, sia come veleno. In piccole dosi alleviava le nevralgie, gli effetti della tosse asinina, dell’epilessia e delle malattie mentali, tanto che veniva largamente usata anche nei manicomi fino al secolo scorso.
In Italia la diffusione del Giusquiamo si è propagata facilmente lungo le antiche vie della transumanza , in quanto parte della pianta, grazie alla sua viscosità, rimaneva facilmente attaccata al vello degli ovini che ne facilitavano involontariamente la diffusione lungo i sentieri attraversati.
Oggi è ritenuta piuttosto rara per la difficoltà di conservazione del suo habitat naturale.
Il suo nome scientifico proviene da due antiche parole greche: ‘Hys=porco e Kyamos=fava’ perché si riteneva che i maiali se ne potessero cibare senza effetti negativi. Con la parola ‘albus=chiaro’ si vuole distinguere dalla specie ‘niger’, che si differenzia dalla dimensione della pianta, dal picciolo delle foglie e dal colore interno della corolla, che nel niger, appare vistosamente reticolato.
Osservata tra le pietre della Rocca di Suvereto.
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