Qualche curiosità su Libbiano |
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Il piccolo borgo medievale di Libbiano, prende il suo nome dall’antico insediamento romano di “Castrum Liviani”, in quanto il legionario Livius nel 59 aC, per l’eccellente servizio militare prestato nella zona, grazie a delle leggi emanate da G.Cesare, lo ricevette in dono insieme a un grande appezzamento di terreno (Fundus Livianus), in prossimità dei torrenti Adio e Trossa. Libbiano sorge sui resti di un antico castello, di cui si possono scorgere solo alcuni ruderi di mura e di una torre quadrata in pietra, semicoperta dalla vegetazione. Il borgo ha un aspetto molto curato, con i suoi graziosi vicoli su cui si affacciano le case, in parte costruite in epoche passate con i resti lapidei dell’antica fortificazione. L’altura dove sorge (480 m) permette di spaziare con lo sguardo verso un panorama davvero superbo, dalle Colline Metallifere, a quelle Senesi, dall’Appennino Pistoiese alle Alpi Apuane e fino al mare. La sua Chiesa La chiesa di Libbiano, intitolata ai Santi Simone e Giuda, è la ricostruzione ottocentesca che sostituisce quella risalente al secolo XII°, insicura e pericolante, che si trovava all'interno del Castello, nei pressi della "Rocca". Ricostruita nel 1848, quasi interamente con i materiali di recupero del vecchio edificio religioso, presenta una pianta a unica navata e due cappelle che si aprono lateralmente. Sull'altare della cappella di sinistra, è collocato un dipinto con San Rocco, invocato dagli appestati e uno di Santa Barbara patrona dei minatori. Nell'altare di destra, si trova l'immagine della miracolosa "Madonna della Neve", venerata dagli abitanti della zona, il 5 agosto di ogni anno. Arricchiscono la chiesa, 2 sculture in terracotta policroma, che raffigurano la Madonna e l'Angelo dell'Annunciazione, attribuite allo scultore volterrano Zaccaria Zacchi (seconda metà del 1500). Tra gli altri piccoli tesori, la chiesa di Libbiano conserva un capitello corinzio, di pregevole fattura, che viene usato come acquasantiera e due campane, di antica fusione, risalenti intorno al 1330.
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Nei secoli, la Vergine Maria è stata sempre raffigurata e invocata con innumerevoli appellativi, che hanno voluto rispecchiare la riverenza verso di Lei nelle più disparate culture, nelle diverse località o a seguito di eventi prodigiosi. Il titolo di ‘Madonna della Neve’, secondo le narrazioni dei vari autori cristiani, affonderebbe le sue radici, verso i primi secoli della Chiesa, quando sotto il pontificato di Papa Liberio, un ricco patrizio romano di nome Giovanni e la sua nobile moglie, avrebbero fatto entrambi uno stesso sogno. Durante la notte la Madonna, sarebbe apparsa loro nel sonno, chiedendo che venisse edificata in Roma, una chiesa a Lei dedicata. Fece capire anche che il luogo indicato, sarebbe stato facilmente individuabile perché ricoperto di neve. I coniugi, sorpresi e increduli, si recarono dal papa per raccontare lo strano sogno, casualmente fatto pure dal papa stesso nella medesima notte e, come nel presagio, la mattina del 5 di agosto del 352, il Colle Esquilino apparve miracolosamente innevato. I coniugi, con Papa Liberio, si recarono sull’altura per tracciare il perimetro della nuova chiesa. L’edificio nel corso del tempo fu ampliato e modificato, fino a quando Papa Sisto III° lo fece in parte abbattere, ricostruendo sui suoi ruderi, l’immensa ‘Basilica di Santa Maria Maggiore’, tanto grande per indicare la maestosità su qualsiasi altra chiesa dedicata alla Madonna. Contemporaneamente si andò anche riaffermando tra il popolo, in culto verso la ‘Madonna della Neve’. Delle 152 chiese sparse in tutta Italia, dedicate alla Vergine della Neve, se ne trova una, anche nel piccolo borgo di Libbiano. Amata, venerata e festeggiata con solennità il 5 agosto di ogni anno; mentre la memoria degli anziani ha tramandato fino a noi la sua leggenda.
Si racconta che tanti, tanti anni fa, in un anno mai precisato da nessuna scrittura, un contadino che rientrava affaticato dal lavoro dei campi, si fermò a riposare sotto un grande albero, in cima alla salita che conduce al paese. L’estate in quell’anno era particolarmente calda e mentre il contadino si accingeva ad asciugarsi il sudore con la sua pezzuola, notò vicino a un ramo della pianta, un’immagine un po’ sbiadita che ritraeva una Madonna. Il poveruomo sorpreso, la raccolse e la portò subito nella chiesa del paese, perché lì potesse essere conservata al sicuro. Il mattino dopo, la gente di Libbiano, incuriosita da quel fatto, si recò in chiesa, ma della Madonnina, nessuna traccia. Tutti allora si misero a cercare ovunque per quasi tutta la giornata e solo verso sera, venne finalmente ritrovata di nuovo sotto il grande albero all’ingresso del paese. Si pensò allo scherzo di qualche buontempone e prontamente l’immaginetta venne di nuovo riportata dentro la chiesa, mentre la gente del paese, intonava canti di preghiera. Tutto capitò nel pomeriggio di un afoso 4 di agosto e non appena calò la sera, il cielo cominciò a brontolare squarciato dai fulmini, che annunciavano una bufera estiva. Così ognuno se ne tornò a casa propria. La mattina seguente, il piccolo borgo di Libbiano, si svegliò nello stupore generale, perché le strade e ogni cosa erano ricoperte da un leggero strato di neve candida. Impossibile non pensare a un miracolo, perché il 5 di agosto, in piena estate, non può proprio nevicare! E la gente si riversò subito verso la chiesa per pregare quella strana Madonnina miracolosa. Ma la statuetta non era più lì, era di nuovo sparita, senza poterla riuscire a trovare! Osservando meglio, alcuni fedeli notarono delle piccole, leggere orme impresse nella neve fresca, che dalla chiesa conducevano fino al grande albero all’ingresso del paese. La Madonnina era di nuovo ritornata al suo posto e i Libbianesi decisero così di costruire proprio in quel luogo una piccola cappella in onore della loro ‘Madonna della Neve’!
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Villa delle 100 stanze |
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La Villa di Monterufoli è un edificio imponente, di notevole pregio storico ed artistico, immerso nel verde dei boschi della Foresta di Monterufoli. Sorge su un'altura in prossimità dei resti di un antico piccolo castello rurale di epoca medievale appartenuto, come tanti altri della zona, ai Vescovi di Volterra. Nei secoli successivi il piccolo insediamento subì il dominio di diverse famiglie signorili, tra cui i Belforti, circa alla metà del 1300. Solo dopo altrettanti passaggi di proprietà diverse, nel XVI° secolo venne acquistato dalla nobile e ricca famiglia Maffei di Volterra, a cui si deve la costruzione della sontuosa villa, che per la sua ampiezza e la sua imponenza, viene da sempre chiamata 'delle cento stanze'. Spesso nella villa, furono ospiti dei Maffei numerosi personaggi illustri, tra cui il pittore napoletano Salvator Rosa, che tra il 1641 e il 1645 vi soggiornò ripetutamente, cercando ispirazione per i suoi dipinti negli aspri e verdi paesaggi delle zone circostanti. La villa venne visitata anche dal naturalista Targioni Tozzetti, a metà del secolo XVII°, che nei suoi studi dedicati alla Toscana, la descrive come fattoria e casa di caccia: <<......situata in cima d'un alto e orrido monte, in mezzo a immense boscaglie, a dominare la selvaggia area delle Collina Metallifere.....>>
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Le miniere di rame nella Riserva di Monterufoli
La Riserva di Monterufoli nota per la presenza dei celebri calcedoni, tra i suoi numerosi aspetti di interesse minerario, vanta anche una diffusione di mineralizzazioni cuprifere tanto ampia, da divenire specialmente durante il secolo XIX°, oggetto di capillari indagini geologiche e teatro di ripetuti tentativi di sfruttamento minerario. La struttura geologica dell’area è caratterizzata infatti da una spessa ed estesa coltre di terreni alloctoni costituiti per lo più da argille e calcari palombini, nonché da vari membri della ‘’Formazione di Lanciaia’’ e soprattutto da enormi ammassi di rocce ofiolitiche (per lo più in facies di serpentiniti). Ciò spiega facilmente, assieme alla stretta contiguità col campo geotermico di Larderello e i fenomeni idrotermali in esso attivi, la presenza di questo tipo particolare di depositi minerari. L’origine delle mineralizzazioni cuprifere viene considerata di tipo vulcano-sedimentario sviluppatasi durante il Giurese, in zone di apertura oceanica dove le acque marine, circolando surriscaldate nelle fratture della crosta oceanica, hanno reso possibile l’accumulo di alcuni tipi di depositi minerari solforosi e ferromagnesiferi. In generale le mineralizzazioni cuprifere più consistenti si rinvengono sotto forma di filoni impastati, ovvero spaccature riempite di pezzi di rocce verdi e di minerali cupriferi immersi un una pasta steatitosa, come piccole vene e filoncelli che si insinuano impregnando le rocce stesse. I minerali che si rinvengono nelle ofioliti di Monterufoli sono per lo più: ‘Calcopiriti’ (rame giallo), ‘Erubescite o Bornite’ (rame paonazzo di colore bronzeo), ‘Pirite’, ‘Azzurite’ ‘Crisocolla’(dal bel colore verdeazzurro), ‘Cuprite’ e raramente ‘Rame nativo’. (Approf: minerali del rame) A differenza della miniera di Montecatini Val di Cecina, di cui sono conosciute le vicende dello sfruttamento minerario preottocentesco, per quanto riguarda la zona di Monterufoli, se si escludono le escavazioni dei Calcedoni, iniziate a metà del XVI° secolo, non esistono testimonianze certe che attestino l’esistenza di qualsiasi attività estrattiva di minerali di rame dal medioevo all’800. Solo nel 1850 vennero condotte importanti ricerche minerarie che perdurarono, tra stagnazioni, delusioni e abbandoni, fino al 1907; per riprendere attività nel periodo compreso tra il 1926 e il 1942, quando le impellenti necessità metallurgiche dettate dall’autarchia economica del periodo della guerra, imposero di riconsiderare tutte le aree italiane, interessate anche in passato da attività mineraria. Ma oltre agli studi, le tracce e gli indizi, le ricerche cuprifere di Monterufoli, portarono quasi sempre a localizzare delle mineralizzazioni discontinue, distribuite senza regola nelle zone di faglia e nei contatti, sempre di entità modeste, caratterizzate da mineralizzazioni irregolari e poco concentrate, rendendo individuabile la zona come un’area ricca di giacimenti poveri. Scendendo nei dettagli, l’inizio dello sfruttamento dei giacimenti cupriferi, ha alla base la ripresa ottocentesca delle attività minerarie in questa zona, riconducibile a tre diversi fattori:
Come testimonia la ‘’Nota dell’opre fatte alla Cava di Rame di Monte Rufoli’’, relativa al periodo 18 marzo-31maggio 1854, ebbero inizio i lavori di escavazione nei pressi della Fonte al Fico, con l’impiego di 4 operai della zona: Giuseppe Castelli, Domenico Belli, Brizzolo Berni e Domenico Barzotti. Nel 1856 i lavori si estesero alla Cava del Botro del Linari, dove si manifestavano migliori prospettive. Fu qui infatti che si sviluppò la ‘Miniera del Caggio’ la più importante di tutta la zona. In quest’area le ricerche condotte dal signor Enrico Coioli di Livorno, vennero a contatto con quelle condotte dalla Società Mineraria Anglo Toscana, anch’essa con sede a Livorno, che aveva acquistato i diritti nell’area di Libbiano, in parte dell’alveo del torrente Trossa e soprattutto per la più antica ‘Miniera del Castagno’. A dirigere i lavori era addirittura l’ing. Giuseppe Meneghini, uno dei maggiori geologi italiani dell’epoca, nonché autore di alcune delle pochissime relazioni geologiche della zona. Suo collaboratore era l’ing. Lorenzo Chiostri di Pomarance, insignito di una menzione onorevole all’Esposizione Internazionale di Londra nel 1862, per la sua carta geologica su Libbiano e i campioni che l’accompagnavano. I lavori presso il Caggio iniziati nel 1856, si prolungarono fino al 1865, raggiungendo la massima intensità negli anni 1858-1862, come fanno fede i cataloghi delle varie e frequenti Esposizioni Campionarie, alle quali partecipavano coloro che avessero intrapreso un’attività di carattere minerario o che comunque avessero interessi scientifici o economici legati alle risorse naturali e al loro sfruttamento. Nella zona di Libbiano, le notizie relative alla ‘Miniera del Castagno’ sono più scarse. Si sa che era ubicata all’impluvio del Botro di Santa Barbara, a sud di Monte Alto e che risultava già attiva nel 1850. Le mineralizzazioni estratte erano costituite per lo più da Calcopirite e da Erubescite che impregnavano il filone di gabbro. Di proprietà della Società Anglo Toscana (Anglo-Italian Mining Company), la miniera intorno al 1860, sembrava offrire grandi speranze. Nel fondo della valle fu scavata una lunga galleria, da cui furono poi dipartite varie traverse e una discenderia che dava accesso a un secondo piano di avanzamento. Tra i lavori più importanti sono segnalati un pozzo profondo 150 metri e una galleria lunga 900. La miniera risultava ancora attiva nel 1874. Oggi di essa si può osservare l’imbocco della lunga galleria armata in muratura, che si apre sulla sponda dx del Botro Santa Barbara presso la confluenza col torrente Trossa. Dallo scavo, ostruito da una frana dopo pochi metri, fuoriesce un discreto flusso d’acqua che attraversa l’antistante piazzale di discarica per poi confluire nel Trossa. Altri lavori furono eseguiti all’Aia al Cerro (Pozzo Samuele) e una galleria al poggio Frantosini. Ancora nella zona circostante Monterufoli, si concentrarono le ricerche e i tentativi di coltivazione mineraria, in quanto comparivano, particolarmente numerose e consistenti le mineralizzazioni di rame. Presso Botticella furono eseguiti saggi che risultarono di scarsa consistenza. Anche al Carbonaione sul versante Nord di Poggio Montorsi fu esplorato un filone tramite due piccole gallerie. Altri lavori di ricerca sulle pendici di Poggio Gabbra, all’Ortaccio e a Fonte al Fico, presso Monterufolino dove le ricerche erano già attive nel 1854. Tuttavia i lavori che assunsero maggior rilievo furono quelli dell’area del Caggio-Linari, dove si intrapresero ingenti lavori di ricerca da parte della società di Enrico Coioli e dall’Anglo Italia Mining Company. Venne attivata una vera e propria miniera impostata su vari cantieri vicini, dei quali si possono osservare ancora pochi, ma significativi resti murari. Furono scavati 3 pozzi (Guglielmo-Edoardo, Miller e Stewart) e tutta una serie di gallerie a congiungere tra loro i pozzi per esplorare il giacimento in profondità. A ridosso dei pozzi fu costruito un locale circolare del raggio di 4 metri in cui furono collocati argani di servizio e maneggi azionati prima da cavalli e in seguito da macchine a vapore alimentate dal combustibile proveniente dalla vicina miniera di lignite di Villetta-Podernuovo, gestita dallo stesso Caioli. Oggi, questi resti di mura diroccate, di pozzi, di gallerie, nonostante vengano pian piano inghiottiti dalla vegetazione, vogliono testimoniare con fierezza il lavoro e la fatica dell’uomo, che ha sfidato un ambiente così aspro e ostile, per strappare alla natura i segreti dei suoi preziosi minerali. (Parte dei nostri appunti sono tratti da studi e articoli a cura del Dott. Angelo Marrucci pubblicati dalla rivista ‘’La Comunità di Pomarance’’, che ringraziamo) |
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Il complesso ofiolitico che predomina la zona di Monterufoli è la formazione più grande della Toscana che in alternanza con le rocce sedimentarie, forma nel suo insieme un settore circolare con diametro di circa 12 km. Il Calcedonio di Monterufoli, veniva già estratto in epoche antiche, ma questa pietra conobbe la sua fama alla fine del XVI° secolo, quando il granduca Ferdinando I° e la potente famiglia dei Medici, nell’ambito dello sviluppo del manierismo e di una politica artistica della Toscana, lanciarono l’iniziativa riguardante la lavorazione delle pietre dure, per la realizzazione dei più svariati oggetti preziosi, cammei, gioielli e soprattutto intarsi di elementi architettonici. Il complesso di Monterufoli diventò il maggior fornitore di Calcedonio che venisse lavorato dall’Opificio delle Pietre Dure, fondato a Livorno nel 1540 e successivamente trasferito a Firenze nel 1588, dove tuttora sono conservati interessanti campioni provenienti dalle varie località di estrazione che si trovavano nelle vicinanze dei Poderi Monterufolino, Sorbi, Gabbra e Poggio di Castiglione. |
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